Fiuto per le malattie!

Fiuto per le malattie!

Dai tumori al diabete, l’olfatto dei cani può aiutare i medici a formulare diagnosi e i pazienti a capire quando stanno per sopraggiungere crisi…

 

Con il loro fiuto trovano persone scomparse, travolte da macerie e valanghe; scoprono carichi occultati di droga e ordigni esplosivi oppure portano sulle nostre tavole i tartufi. Ora i cani segnalano anche chi ha contratto il virus del Covid-19.

Del resto, il fatto che le malattie abbiano un odore tipico è risaputo fin dagli albori dell’arte medica.

Lo insegnava ai suoi studenti già Ippocrate nel V secolo a.C. e la Sushruta Samhita, un trattato ayurvedico scritto da un medico indiano vissuto tra il 1200 a.C. e il 600 a.C., evidenzia come il senso dell’olfatto permetta d’identificare molte patologie.

«Il cane è un animale macrosmatico, cioè dalla capacità olfattiva estremamente superiore – si dice addirittura di centomila volte – a quella umana», conferma Mariangela Albertini, docente e ricercatrice al dipartimento di medicina veterinaria dell’Università degli Studi di Milano.

«Riesce a percepire circa mezzo milione di composti odorosi, anche se presenti in quantità estremamente basse.

Per esempio, mentre noi sentiamo genericamente l’odore di minestrone, il cane riesce a distinguere quello di tutti gli ingredienti di questo piatto».

Una superiorità dovuta non solo al naso, ma anche alla testa:

«Da un punto di vista fisiologico ha molti più recettori olfattivi dell’uomo, dai 200 milioni fino al miliardo del pastore tedesco a fronte dei 50 milioni nostri. L’intera mucosa olfattiva, cioè tutta la parte del naso deputata alla percezione degli odori, è molto più estesa, arrivando a 170 centimetri quadrati contro i 3-5 dell’essere umano. Inoltre il cane ha molto più sviluppata la parte di corteccia cerebrale dedicata a discriminare gli odori presenti nell’aria, così riesce a ragionarci maggiormente sopra e a memorizzarli».

Certo, il migliore amico dell’uomo non è l’unico animale macrosmatico. Resta, però, il fatto che, sorride la studiosa, «è molto più facile, anche rispetto a un gatto, insegnare a un cane a percepire una sostanza e a segnalarla, perché lui ama vivere con noi così come noi con lui ed è, quindi, utilizzabile in ambienti urbani, dagli aeroporti alle scuole».

 

DAL CASO DI TRUDIE ALLO STUDIO ITALIANO

Tutto è iniziato nel 1989, quando la prestigiosa rivista The Lancet pubblicò il caso dell’inglese Gill Lacey e della sua dalmata Trudie. Era successo qualche anno prima, quando Gill aveva 19 anni e il cane, ogni volta che le passava accanto, le annusava insistentemente un minuscolo neo sulla gamba. La giovane, insospettita, si era sottoposta a un controllo, scoprendo di avere un melanoma maligno, rimosso appena in tempo.

Un mese dopo, tornata dall’ospedale, Trudie aveva certificato la guarigione, ignorando l’arto della proprietaria. Una storia che contribuì a rendere pubblica una moltitudine di vicende analoghe riguardanti anche altri tipi di tumore, convincendo la scienza a guardare con interesse al fiuto dei cani quale possibile aiuto nelle diagnosi.

«Per un certo periodo ci sono state pubblicazioni solo a livello aneddotico, racconta Albertini, «ma dopo qualche anno si è cominciato a studiare le capacità olfattive canine in questo senso e le patologie per cui sono stati pubblicati lavori scientifici sono soprattutto quelle tumorali».

E comparso nel 2004 sul British Medical Journal il primo studio sulla capacità diagnostica dei cani, in cui ricercatori britannici hanno fatto annusare agli animali campioni di urina, più comoda da raccogliere e manipolare rispetto all’aria esalata.

  • Dello scorso anno, invece, è lo studio sulla capacità dei cani di riconoscere i campioni di urina di pazienti affetti da tumore del polmone rispetto a quella dei volontari sani.

Pubblicato dal Journal of Breath Research, è stato firmato dalla divisione di chirurgia toracica dell’Istituto Europeo di Oncologia (leo) di Milano, diretta da Lorenzo Spaggiari, e dal gruppo di lavoro di Mariangela Albertini assieme agli istruttori cinofili della Medical Detection Dogs Italy Onlus.

«Abbiamo notato», sintetizza la ricercatrice, «che i cani riescono a percepire la presenza dei VOCS collegati al tumore polmonare anche e soprattutto quando la neoplasia è nelle fasi iniziali e persino la risonanza magnetica stenta a riconoscerlo. Inoltre, nonostante il tentativo di trarli in inganno, sono risultati capaci di distinguere i tumori maligni da quelli benigni e dagli stati infiammatori».

Un risultato che lo Ieo punta a trasferire in un’applicazione clinica: il naso elettronico, da un decennio oggetto di ricerca da parte dei suoi scienziati.

«Nella lotta contro il tumore al polmone», chiarisce Spaggiari, «è fondamentale la diagnosi precoce. È dimostrato che la Tac spirale effettuata negli individui a rischio-over 50 che fumano oltre 20 sigarette al giorno – riduce la mortalità di circa il 30%, ma occorrerebbe una metodica di prescreening non invasiva che, tramite l’esame dell’esalato, indichi l’eventuale alta possibilità di avere un tumore.

È il cosiddetto naso elettronico, una tecnologia ingegneristica di analisi che identifica nell’80% dei casi la neoplasia: partendo dal test del respiro, traccia una specie di curva che negli ammalati presenta una certa particolarità, da noi identificata attraverso uno studio preliminare condotto sui nostri pazienti».

Il cane, per l’oncologo, va considerato come «un modello sperimentale. Indubbiamente ha il miglior olfatto in assoluto, però diventa problematico utilizzarlo per il test del respiro, in quanto il nostro amico a quattro zampe analizza con maggiore facilità le urine.

Se però riuscissimo a creare un naso elettronico simile al suo riusciremmo ad avere questo strumento di pre-screening utilizzabile nello studio del medico di base. È su questo che stiamo lavorando, anche se il vero problema è che l’industria non si sta ancora interessando a questa tecnologia»…

 

Fonte: estratto da un bellissimo servizio di Marco Ronchetto tratto da Ok Salute e Benessere, marzo 2021

 

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