Abitavo in Svizzera e non era difficile incontrare ogni giorno cani, gatti, mucche, galline e ogni genere di animali; a tutti avevo dato un nome e tutti erano speciali. All’età di 11 anni la mia famiglia si è trasferita in Italia e sono arrivata in Calabria. Fin da subito mi ha colpito il numero di cani e gatti in giro per le campagne e per le stradine del paese; chiedevo di chi fossero, ma non mi rispondeva nessuno.
Così, ho smesso di domandarlo, perché ho capito che erano anime sole, non erano di nessuno. E ho cominciato a prendermi cura di loro.
Qualsiasi cosa facessi, lui scodinzolava felice.
Alcune volte alla sera stavamo accoccolati uno di fianco all’altro e sembrava dirmi “grazie per avermi accolto”, “grazie per il biscotto di oggi”, “grazie per i baci sulla fronte” e “grazie per prenderti cura di chi è stato meno fortunato di me”. Perché se anche ero una ragazzina, non mi dimenticavo mai di portare l’acqua all’angolo della strada o una ciotola con il cibo che avanzava a casa per i randagi che vagavano nella zona.
Una volta raggiunta la maggiore età ho cominciato a fare volontariato nei canili: c’era tanto da fare e quando pensavo di aver finito, mi accorgevo, che avrei potuto ricominciare di nuovo e così all’infinito. E dietro quelle sbarre ho scoperto la realtà dei cani disabili e dei cani anziani. I primi hanno bisogno di fisioterapia e di cure mediche giornaliere, i secondi di poter terminare la loro vita con serenità e dignità.
I primi tre disabili che ho portato a casa sono stati Sun, Sofia e Swami, tre fratellini con le ossa frantumate; nessuno ha mai capito chi o che cosa li avesse ridotti in quelle condizioni, di fatto l’incidente aveva lasciato loro problemi neurologici che impedivano una corretta deambulazione e cecità e sordità quasi totale. Non potevano certo stare in canile. Swami è deceduta quasi subito per un collasso polmonare, Sun e Sofia sono rimaste con me e oggi si muovono con il supporto di un tutore.
Per loro ogni singolo istante è prezioso e non perdono tempo a commiserare e a farsi commiserare. Seppur nel loro mondo di ombre e suoni confusi, mi hanno insegnato a vivere la quotidianità come se fosse un’avventura piena di bellissime sorprese.
Un giorno i miei occhi hanno incontrato quelli di un cane vecchio: femmina, si chiamava Nike, aveva 17 anni e le zampe posteriori non la reggevano più. L’ho messa in auto e l’ho portata a casa.
Non sapevo quanto tempo le rimanesse, ma volevo che i suoi ultimi giorni fossero confortevoli e che conoscesse, anche per poco, il calore di una famiglia. E così Nike ha cominciato a vivere al riparo dal vento pungente della notte, adagiata su una calda coperta e coccolata da due infermieri speciali, Sun e Sofia.
Ed è successo quello che speravo: i suoi occhi sono diventati sereni e, mentre la coccolavo, mi ha fatto capire che era felice. Si è spenta dopo un mese, attorniata dall’affetto e dalla compagnia, come dovrebbe accadere a tutte le creature su questa terra…
PS: la storia di Debora e del suo profondo amore per gli animali, continua sul numero di confidenze del 19 dicembre 2017, recuperatelo, perché merita veramente di essere letta tutta.
Fonte: sintesi di uno splendido articolo di Marco Bergamaschi, su Confidenze 19 dicembre 2017
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